TESTIMONIANZE

L’arte di Victor de Sabatadi Franco AbbiatiTratto da: Teodoro Celli, “L’arte di Victor de Sabata”, ERI/Edizioni RAI, Torino, 1978

L’arte di Victor de Sabata di Teodoro Celli

Mi legava a de Sabata una ragione anzitutto sentimentale: eravamo molto amici, fraternamente amici, e poi posso dire d’aver seguito la carriera scaligera di de Sabata dagli inizi, nel 1929, fino a quando un infarto gli ha impedito di continuare a dirigere nel corso della stagione 1953-54.

Posso dire quindi qualche cosa di quello che ha fatto alla Scala dopo essere stato però undici anni al Teatro dell’Opera di Montecarlo, dove, fra l’altro, ha presentato per volere dell’autore L’Enfant et les sortilèges di Ravel in prima mondiale, e sempre in prima mondiale, in francese, La Rondine di Puccini. Nel ’29 esordi alla Scala, con La Fanciulla del West e con La dannazione di Faust seguiti, l’anno dopo, da quello che è stato uno dei capolavori d’interpretazione di de Sabata e cioè il Tristano e Isotta con il soprano Cobelli nel ruolo di protagonista femminile.

Il suo Tristano scaturiva dalla affinità, diciamo, più che ro­mantica, tra il sogno wagneriano dalla melodia infinita e dell’annien­tamento quasi al limite del silenzio, con quello che era il tempera­mento desabatiano; temperamento eccessivo perfino, portato agli estremi delle effusioni.

Dopo il Tristano, ha diretto Ifigenia in Tauride con risultati favolosi. Un’altra opera adatta al suo temperamento, il Sansone e Dalila, gli ha consentito vertici interpretativi che per me hanno su­perato quelli pure decantati, dell‘Otello, della Walchiria, del Puccini di Bohème e Butterfly. Per me queste tre opere soprattutto sono state e restano indimenticabili.

Del repertorio sinfonico, ha diretto un’infinità di pezzi, in Italia all’estero, a Salisburgo, a Edimburgo. Ricordo soprattutto il ciclo delle sinfonie beethoveniane che ha diretto, mi pare, nell’ottobre del ’52 in quattro serate poi ripetute. E poi ricordo, soprattutto, la sua Messa di requiem di Verdi; le sue edizioni della « Messa » non sono inferiori, forse superano, le stesse splendide esecuzioni di Toscanini e di Ka­rajan che tutto il mondo conosce e ammira.

Sulla linea stilistica dell’interprete vorrei dire che de Sabata aveva un piccolo torto, che lui stesso ammetteva parlando con gli amici: si lasciava trasportare dal moto sottile della composizione, al punto che non sapeva frenare i propri gesti; questo era un torto che lui si riconosceva; « ma — diceva — io non posso resistere, le mie braccia si muovono, le mie mani vogliono quasi modellare i gruppi armonici, le melodie, come mi escono dal cuore, attraverso la lettura della partitura».

La sua mimica danzante è quella che ha dato  fastidio a molti ascoltatori; per me invece questa mimica era trascinante. Aggrediva quasi la musica; aveva una memoria di ferro ed era disturbato da qualunque errore: la stonatura di un violino di fila provocava in lui le arrabbiature più solenni. Era impastato di musica, ecco, e ciò lo faceva anche poco resistente a questa impulsività naturale.

E veniamo al se Sabata compositore: io ho ascoltato tutti i suoi poemi sinfonici: La notte di Platon, poi Gethsemani poi Juventus; ho ascoltato l’azione coreografica Mille e una notte alla Scala; non ho ascoltato, invece, e quindi non posso darne un giudizio, l’opera in tre atti che la Scala pure gli ha eseguito, diretta da Panizza, che s’intito­lava, curiosamente, Il Macigno. Sono d’accordo con il giudizio gene­rale di un’influenza straussiana sulla sua musica condotta però con arte compositiva non comune. Se avesse continuato a comporre sa­rebbe arrivato molto più in là.

Il de Sabata uomo era estremamente socievole, però selezionatore: era socievole con gli amici, e mi ricordo delle giornate magnifiche, festosissime, passate con lui e con Umberto Giordano, sul Lago Maggiore dove Giordano possedeva una villa e dove tra amici c’intrattenevamo magari per una buona colazione. In queste occasioni de Sa­bata addirittura giocava con noi, era felice.

Certo, de Sabata non fu solo il trascinatore, per così dire dionisiaco, dalla memoria di ferro, dall’occhio balenante, dalle mani inquiete e come rapite verso l’alto, dalla musicalità naufragante per eccesso di bagliori, ma fu anche uomo dall’animo molto gentile che accoppiava la squisitezza dei sentimenti alla finezza dei tratti e alla signorilità esemplare; e fu ancora un organizzatore e fortissimo sollecitatore di energie, nutrendo ambizioni e raggiungendo traguardi che la vasta cul­tura e la calda umanità e la sovrana chiarezza delle idee legittimarono largamente.