TESTIMONIANZE

TESTIMONIANZEVictor de Sabata e Triestedi Eliana Ceccato de SabataTratto da: “Lungo il Novecento. La musica a Trieste e le interconnessioni tra le arti”

Ringraziamo la curatrice Maria Girardi ed il Conservatorio di Trieste per l’autorizzazione a riprodurre questo testo.

Era nato a Trieste, il 10 aprile 1892 ed è mancato a Santa Margherita Ligure, l’11 dicembre 1967. Al mare.
È nato e spirato accanto al suo tanto amato mare. Lo fissava per ore, con quei suoi occhi che, come il mare, cambiavano colore. Sereno, i suoi occhi erano azzurri. Grigi, quasi bianchi se teso o veramente irritato. Ira, la sua, che sapeva contenere: detestava chi dava in escandescenze o alzava la voce.

Aveva ricevuto una educazione severa, da quella amatissima madre triestina che tanto gli era stata vicina, mentre da piccolo affrontava i tremendi dolori della poliomielite.

Poi tra loro si era stabilito un rapporto speciale, e da questo credo nasca l’impronta indelebile di «triestino» che per sempre l’ha definito. Anche se a Trieste era vissuto per pochi anni, perché presto la famiglia si era trasferita a Milano, dove per il padre Amedeo erano maggiori le possibilità di lavoro. Ma la famiglia visitava spesso Trieste perché la mamma Rosita aveva lì le sue sei sorelle, e ai cugini Bonivento e Uberti, entrambi medici,

Victor, che era sempre molto interessato ai progressi della scienza medica, si sentiva molto legato anche se lontano.
La vita in casa, a Milano, era improntata al clima socievole e generoso di quando stavano a Trieste. Quella casa in via Canova 11 non esiste più, danneggiata da una bomba, ne hanno ricostruita un’ altra dopo la guerra. Ma doveva essere un ambiente molto interessante. Ci abitavano anche i Carpi de Resmini: il padre era un famoso tisiologo, assistente di Forlanini; ci abitava l’ingegnere Francesco Rossi, che aveva studiato e sviluppato accumulatori e batterie, tanto che la sua fabbrica a Melzo, la Tudor, era in costante crescita. Ci stava Giulia Tess, grande cantante.
Un caso particolare accaduto in via Canova 11 è costituito dalla conoscenza tra il ragazzo Victor, che era il maggiare e il più scavezzacollo del trio, e la piccola Nori Rossi, figlia dell’ingegnere, che conosceva così il suo futuro marito a solo un anno … Si sarebbero poi rincontrati al conservatorio, dove la sorella di Nori, Anna, festeggiava un magnifico saggio e il suo diploma di pianofote.

In commissione, già celebre, Victor de Sabata notava la splendida Nori, cresciuta con tratti da saracena, e nasceva quella passione poi li avrebbe portati al matrimonio.

In via Canova 11 Francesco Rosi cantava spessi arie di Torsti per la sua bella sposa Lina, accompagnandosi al pianoforte. Il maestro Amedeo de Sabata era rimasto molto colpito da quella voce di tenore ed aveva cercato di mandare, tramite sua moglie Rosita, un messaggio a Lina Rossi: se voleva, con alcune sue lezione di canto, quel giovane poteva anche pensare ad una carriera in teatro.

​L’ingegnere però non abbandonò le sue batterie, ma con i de Sabata, da allora, diventarono amici.

Amedeo de Sabata era davvero un magnifico maestro di canto, ed era anche direttore d’orchestra: aveva diretto in Francia, in Russia e anche al Teatro Dal Verme di Milano. Avrebbe poi preso la direzione dei coro del Teatro di Monte-Carlo, dove si trasferiva definitivamente dopo la fine della prima guerra mondiale.

La vena artistica del padre di de Sabata era molto ampia: componeva, e aveva un grande talento di pittore e di ritrattista. Anche Victor disegnava con naturale facilità e la scultura era una sua passione: il famoso scultore Paolo Troubetzkoy era rimasto impressionato una volta sulla spiaggia del Lido di Venezia dove quell’adolescente aveva creato con la sabbia un magnifico bassorilievo di un cavallo. Cavalli e navi erano la sua passione. Disegnava entrambi con un segno sicuro, continuo, a memoria. Troubetzkoy pensava che avrebbe dovuto continuare con la scultura, ma la musica, invece, era subito stata la sua vera espressione.

 

Non arrivava ancora ai pedali del pianoforte, e già componeva, con l’aiuto del padre, insistendo con ostinata sicurezza sulle note che aveva precise in mente, e il padre trascriveva sul pentagramma la sua prima sul pentagramma la sua prima composizione: Gavotta per il gatto.

Al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano era entrato giovanissimo e subito si era distinto per l’incredibile memoria, per l’orecchio assoluto, per la sua personalità trascinante: già a dodici anni dirigeva il saggio e di quell’orchestra facevano parte allievi che arrivavano anche ai diciotto anni. La sua incredibile predisposizione alla direzione d’orchestra e le qualità straordinarie che dimostrava nel proseguire i suoi studi lo avevano subito segnalato come uno dei più brillanti allievi dell’istituto. La sua preparazione, seguita con consapevole intelligenza dal padre musicista, comprendeva lo studio della composizione – indispensabile per chi deve interpretare i grandi e far risaltare il meglio anche nei minori – ma proseguiva anche sul piano concreto con lo studio del violino, del pianoforte. Inoltre, cosa più unica che rara nella storia della musica, de Sabata aveva conoscenza non solo teorica ma anche pratica di tutti gli strumenti dell’ orchestra.

Per esempio a Berlino suggerì ai tromboni di suonare in una determinata posizione. Karl Heinz Thiele (primo trombone) ricordava che in quarant’ anni della sua attività con i Berliner Philharmoniker nessuno aveva mai osato tanto.

A Londra, ricordava il manager della London Philharmonic Orchestra, Eric Bravigton, il maestro era insoddisfatto del timbro prodotto da un colpo di piatti. Così, sceso dal podio, si fece consegnare i piatti dando prova, di fronte all’orchestra sbalordita, di come si doveva fare per ottenere l’effetto che lui desiderava. Bravigton faceva notare che quel percussionista inglese era uno dei più quotati della Gran Bretagna. Alla Scala, era andato ad indicare all’ arpista con quali pedali doveva suonare certe note (sono notorie la complessità e l’intricata tecnica esecutiva dell’arpa). Sempre Bravigton ricordava che, a causa di un imprevisto errore della programmazione della London Philharmonic – erano entrambi sul treno, Bravington e de Sabata, che da Dover li portava a Londra per i concerti – in programma risultavano preventivate le Enigma Variations di Elgar. De Sabata ne era rimasto sorpreso poiché questa composizione non era nel suo repertorio.  Ma, per togliere dall’imbarazzo il rappresentante dell’orchestra, gli disse: «Non si preoccupi – mi mandi subito in albergo la partitura».

Stava all’Hyde Park Hotel e l’indomani, alla prima prova con l’orchestra, arrivato sul podio, come sempre senza partitura, annunciava all’orchestra: «Elgar». Ad un certo punto si ferma, e dice al fagottista che stava suonando un fa diesis, mentre invece avrebbe dovuto suonare un fa naturale. «Mi dispiace – insisteva il fagottista – ma ho sempre suonato un fa diesis». Quel pezzo era molto eseguito dalla London Philharmonic Orchestra, tanto che de Sabata, serenamente, si fece portare la partitura per controllare. Aveva ragione lui. .. ma nessuno prima aveva notato quell’ errore di trascrizione. E aveva memorizzato quelle difficili pagine in una notte!

CosÌ in tante altre occasioni – anche a Bayreuth, per una recita del Tristano – aveva trovato errori di stampa. Provava sempre a memoria, e concertare a memoria è molto più difficile di quanto non lo sia dirigere.

 

A quell’epoca erano molti i grandi direttori, ma de Sabata subito era entrato a far parte dei giganti del suo tempo.
Un altro elemento importante della sua personalità era la sua cultura, il suo interesse per tutte le arti, data la sua natura poliedrica.
Si viveva un’epoca straordinaria, quella della Belle époque, a Monte-Carlo, dove suo padre Amedeo era direttore dei cori, mentre la mamma Rosita preparava sempre i suoi piatti triestini favoriti: il pesce in carpione, per esempio.
In casa si parlava un idioma privato, misto di triestino- friulano del tutto incomprensibile ai francesi, anche se la lingua francese era comunque quella corrente, una delle tante lingue che de Sabata parlava bene, insieme all’inglese e al tedesco, con una vera passione per il latino, che studiava per conto proprio …
Allora la casa dei maestri de Sabata padre e figlio era frequentata da artisti quali i Pitoeff, la Muzio, Ravel, Scialiapin (al quale Amedeo aveva impostato il suo storico Don Basilio), e anche in seguito si andava consolidando l’amicizia e la grande stima con Pirandello, Richard Strauss, Max Reinhardt. Sensazione aveva ottenuto a Venezia la nuova messa in scena, in campo San Travaso, del Mercante di Venezia, per la regia di Max Reinhardt, con Memo Benassi, Renzo Ricci, Laura Adani, Marta Abba sul palcoscenico, messinscena accompagnata dagli Affreschi sinfonici di Victor de Sabata, il quale, con grande effetto stereofonico, aveva composto pure un’ aria per un gondoliere che arrivava cantando verso campo San Trovaso.
Era il 1934 … Un’epoca diversa. C’era allora un’altra lealtà tra gli artisti. Furtwangler riconosceva l’arte di de Sabata e viceversa … Toscanini dirigeva innumerevoli volte il poema sinfonico Juventus di de Sabata, in Italia e all’ estero ..
Mitropoulos gli dedicava una sua foto con queste parole: «A Victor, il più grande di tutti noi».

 

Ricordare mio padre come ‘persona fisica’ mi è difficile: fin da bambina sentivo emanare dalla sua figura slanciata, diritta, un’ aura ieratica, distante, che suscitava in me uno spontaneo rispetto. A volte questa sua lontananza – era sempre immerso nei suoi pensieri, nelle sue frasi musicali, nello studio, che proseguiva anche se non aveva la partitura davanti a sé – s’interrompeva in un improvviso sorriso, in una scherzosa osservazione. Ci educava con degli esempi divertenti:

“Non dovete fare rumore di chincaglieria con le posate nel piatto, [ … ] dovete mangiare con discrezione distratta: non siete la caldaia di un treno che dev’essere freneticamente riempita di carbone”.

Nostro padre aveva un grande senso dell’umorismo.
Spesso ci sorprendeva con le sue osservazioni argute e graffianti. Quando, con mio fratello Elio, avevamo discussioni che arrivavano alla lite, una frase che ci aveva suggerito disarmava del tutto l’altro. Insisteva sull’importanza del sapere l’inglese e ce lo insegnava sistematicamente.
La frase diplomatica che dovevamo usare per chiudere ogni questione era: «Do you think so?». Si rimaneva interdetti, e disarmati. E nostro padre ci osservava divertito …
Ricordo i preparativi per la partenza per Trieste, con l’Orchestra della Scala1. E a Trieste gli incontri con tutti i parenti, le belle cerimonie … il Teatro Verdi affollato, il loggione stracolmo, il trionfo, i bis, volavano fiori, coccarde tricolori. Un momento indimenticabile2
Certo, Elio ed io dovevamo accontentarci delle sporadiche presenze a casa di nostro padre – e quando c’era, dovevamo stare attenti a non disturbarlo mentre studiava – i suoi orari erano diversi dai nostri, spesso cenava tardi, dopo le prove, e noi gli tenevamo compagnia. Il Natale era un momento molto difficile perché il giorno dopo, per Santo Stefano, era consuetudine inaugurare La Scala; quindi la vigilia di Natale, il 24, c’era la prova generale. La tensione in casa era sempre spasmodica.
Per fortuna poi anticipò l’inaugurazione al 7 dicembre, in occasione della festa di sant’Ambrogio. E questa è poi diventata la nuova tradizione della Scala. Ma fu opera sua.
Un padre che stava poco a casa, ma quanto soffrivamo dentro di noi, quando vivevamo le sue interpretazioni, assistevamo ai suoi magici gesti, ai trionfi, e vivevamo anche la sua generosa fatica, anche fisica.. . Sudato, sdraiato sul suo divano, in camerino tra un atto e l’altro, ad occhi chiusi … Sapevamo che stava concentrandosi per quanto sarebbe seguito.
Qualcuno gli rubò la partitura del Tristano, forse pensando di trovarci i segreti della magica interpretazione desabatiana.
Sbagliava, perché de Sabata annotava pochi segni sulle sue partiture. Per la ripresa del Tristano la stagione seguente, de Sabata non se ne procurò un’ altra. Non ne aveva bisogno: il Tristano era in lui. Lo rileggeva ad occhi chiusi. Chissà dov’è quella partitura sparita.

 

I suoi occhi. Penso a quanto gli stesse a cuore di non perdere la vista. E quanto fosse vicino a chi non poteva vedere. Eravamo molto legati a don Carlo Gnocchi, che veniva spesso a casa nostra in via Tasso. La sua opera per I Mutilatini – i bambini che erano stati vittime di amputazioni a causa della guerra – aveva sia in mio padre che in mia madre un grande sostegno. Da una parte, concerti benefici a favore di questa generosa e necessaria iniziativa, dall’ altra il sostegno di mia madre, che aiutava per la parte organizzativa, sensibilizzando quante più persone amiche o importanti potesse … Fu don Carlo Gnocchi, che io ricordi, tra i primi a donare le sue cornee. Questo suo gesto deve avere molto commosso nostro padre.

Infatti teneva sempre in tasca un foglietto sul quale lasciava le direttive perché si donassero i suoi organi per quanto utilizzabili …

Era notte fonda: era da poco mancato e le infermiere della clinica mi hanno subito consegnato quanto era nelle sue tasche. Tra le altre carte ho trovato un foglietto in cui erano espresse le sue volontà. Mi misi subito in contatto con il suo medico e, da Genova, la mattina seguente, prestissimo, arrivarono i chirurghi per il prelievo delle sue cornee. Una mamma ha potuto in tal modo vedere le sue figlie.

Curiosa coincidenza, Elias Canetti, proprio nel suo libro Il gioco degli occhi, evoca un’immagine vivida di Victor de

Sabata: egli aveva sempre dimostrato più anni di quanti non ne avesse e la sua figura sembrava al di là di un’ età fisica precisa, sia per la sua testa precocemente bianca che per la corona di capelli che circondava un cranio perfetto.

Canetti e de Sabata si erano incontrati a Vienna nello studio di Anna Mahler, la figlia del grande compositore. Canetti lo ricorda così:

“Da Anna incontrai anche figure che soggiogavano per la bellezza, addirittura per una bellezza purissima, come quella che per me prendeva forma nelle maschere mortuarie. Ero colpito dall’aspetto di Victor de Sabata, il direttore d’orchestra. Dirigeva alla Staatsoper e veniva tra una prova e l’altra. Bastava attraversare la strada, l’Operngasse: l’atelier di Anna era come una dépendance del teatro. Questa era la sensazione che de Sabata doveva provare venendo dal podio che era stato di Mahler, e il fatto che fosse lei a ritrarlo, a giustificare l’aspirazione del suo viso all’immortalità, non solo aveva un senso, ma sembrava a me il coronamento della vita stessa di de Sabata. A volte ero presente quando lui faceva la sua apparizione, rapido e sicuro, una figura slanciata che nonostante la fretta aveva un che di sonnambolico, il viso molto pallido, della bellezza di un morto, ma un viso che non somigliava a nessuno pur nella regolarità dei lineamenti. Era come se de Sabata camminasse a occhi chiusi, e tuttavia quegli occhi guardavano e vi era in essi, quando si posavano su Anna qualcosa di allegro. Non fu un caso, per me, se de Sabata diventò una delle più belle teste di Anna.”

Possiedo una fotografia di quella testa realizzata da Anna Mahler: l’originale è andato distrutto nel bombardamento che, per poco, Anna stessa riuscì ad evitare, lasciando in fretta ogni cosa nel proprio atelier. Certo quegli occhi erano davvero speciali. Anche per noi figli: ci potevano fulminare, o riempire di gioia e di orgoglio, se eravamo stati all’altezza di quanto nostro padre si aspettava da noi. Del resto lui era abituato a chiedere sempre il massimo anche a se stesso.

Franco Fantini, che fu a lungo primo violino alla Scala sotto la sua direzione, ricorda come il suo perforante attentissimo sguardo non abbandonasse mai i musicisti. Non avendo mai davanti a sé la partitura, poteva tenerli tutti, uno per uno, soggiogati dalla sua magnetica attenzione. Fantini racconta che, per questo motivo, cercava di memorizzare i passi più spinosi sapendo che proprio in quei momenti avrebbe avuto su di sé lo sguardo del maestro…

Eppure, in un’ occasione, forse per sicurezza, avendo preferito leggere una frase musicale, alzando poi lo sguardo verso de Sabata, lo vide accennare una specie di sorriso, perché l’aveva scoperto in difficoltà come in un gioco, quasi una sfida fra loro. Fantini ha scritto di de Sabata:

“Il magnetismo di un direttore d’orchestra grande [ … ] viene anche dalla sua sapienza. li suo modo di ‘lavorare’ era una lezione continua. Si era presi dalla sua enorme sapienza, dalla lezione continua che quest’uomo faceva sul podio. Non c’era una battuta che non fosse penetrata, vissuta e fatta capire a noi che la stavamo suonando. Ed era talmente convincente, nelle sue prove, che per me la musica suonata con luì – il Falstaff, la Messa di Requiem, e tante altre cose – è rimasta come una lezione assoluta, indimenticabile, inchiodata nel cervello! Fatta dopo, con altri direttori d’orchestra, anche grandi, non arrivava mai a quei vertici”.

 

Dopo la tremenda interruzione della guerra, ben pochi erano gli anni che aveva ancora davanti a sé: un terribile infarto a soli sessantun anni, come una folgore, bruciava la sua forza fisica e la sua carriera.

Eppure resta comunque un direttore leggendario. Perché? Aveva doti straordinarie. Qualità multiformi tutte di altissimo valore. Victor de Sabata aveva in sé le componenti, e ad altissimo grado, per diventare un compositore e un interprete che ha segnato una tappa nella storia della musica3.

Possedeva un’ipersensibilità drammatica, un senso musicale in discutibile, un udito eccezionale, una memoria prodigiosa, una volontà ferrea e un’ abnegazione e devozione quasi religiose per la sua arte.

Tutto questo era basato su una preparazione profonda e sulla sua personalità di compositore che gli permetteva di mettere a fuoco tutti gli elementi compositivi degli autori che interpretava. Le sue interpretazioni erano talmente filtrate, soppesate, valutate, che, anche se può sembrareun assurdo, riusciva a far sposare questi elementi alla sua capacità di «ricreare» una composizione, fondendola a tal punto, che ad una esecuzione dell‘Andrea Chénier alla Scala, Giordano gli chiedeva: «ma Victor questa musica l’ho scritta io?».

Era anche un pianista eccezionale. In campagna una sera, nell’ estate del 1967, la sua ultima estate, dopo aver suonato

ad una velocità supersonica, non mancando una sola nota, un difficile studio di Cramer – quello in re bemolle – naturalmente a memoria, si rivolse a mio marito che aveva ascoltato sbalordito, conoscendone bene le difficoltà, dicendo: «scusami ma sono sessant’ anni che non lo suono».

 

A Monte-Carlo Victor de Sabata estese la sua esperienza di direttore d’orchestra affrontando il grande repertorio, con i più celebrati artisti del suo tempo. Stava preparandosi per dirigere Norma, studiandola come sempre faceva nel silenzio della notte … (ricordo bene la luce nella sua stanza, accesa sino a tarda ora, sempre).

L’amore profondo che lo legava a sua madre era in quei mesi turbato dalla grave cardiopatia di lei. Tale era stata la sofferenza di quella inutile lotta, vissuta standole accanto, che poi non prese mai più in mano la partitura di Norma.

A Monte-Carlo, nel 1925, Victor de Sabata provava L’Enfant et les sortilèges per la sua prima esecuzione. Ravel aveva portato con sé, in treno, le ultime pagine che Victor aveva subito assimilato e le prove potevano così proseguire mentre con l’autore presente ancora dovevano essere controllati errori, corretti certi passaggi. ..

Ravel gli scriveva, la mattina dopo la première, da Monte-Carlo:

Hotel de Paris il 22/3/25  // Mon cher ami, je ne vous lai pas assez dit durant les répétitions, ces terribles répétitions où nous devions tous faire les correcteurs, et durant lesquelles je ne souffrais pas moins que vous, je vous l’assure: je ne vous ai pas assez dit combien j’étais touché de la haute conscience artistique que vous, chef prodigieux, et votre orchestre de virtuoses avez apportée à la réalisation d’une oeuvre aussi difficile. Vous mavez donné une des joies les plus complètes de ma carrière et je viens vous remercier tous, du fond du coeur, de mon succès dhier soir. // Croyez, mon cher ami, à toute l’affection devouée de votre // Maurice Ravel

 

Trieste, che sempre è stata nel cuore di Victor de Sabata, può continuare a sentirlo parte della sua cultura, attraverso la musica che ci ha lasciato, che ne trasmette la personalità e il suo temperamento .. . La sua musica ci resta, vive oltre la fine del tempo terreno. Dalle prime sue composizioni, che tutte avevano avuto grande immediato successo, la Suite per orchestra, l’idillio Tra fronda e fronda , l’opera Driada, commissionatagli dalla Scala quando aveva solo venticinque anni, e presentata dapprima con il titolo Il Macigno, purtroppo bruciata nell’incendio dei magazzini Ricordi durante un bombardamento, di cui ora ci resta solo lo spartito per pianoforte. E poi l’azione coreografica Mille e una notte, rappresentata nel 1931 alla Scala4. Ci restano anche gli affreschi sinfonici per il Mercante di Venezia del 1934. Ma ora disponiamo anche della recente registrazione con la London Philharmonic, per l’etichetta Hyperion, dei tre poemi sinfonici: Juventus, La notte di Platon, Gethsemani, diretti da Aldo Ceccato.

Le musiche di de Sabata sono state fatte conoscere nel mondo da grandi direttori quali Richard Strauss, Lorin Maazel, Erich Kleiber, Walter Damrosch, Jean Martinon, Aldo Ceccato, Eliahu Inbal e naturalmente, primo fra tutti, Arturo Toscanini.

La sua ultima composizione è dedicata a Nori, la sposa tanto amata. Si tratta di due laudi per voce e organo: Laude del sec. XVI (scritta nel settembre del 1966) e Amor Gesù da un testo di Savonarola (risalente all’ ottobre 1966). Commoventi pensieri, antiche sonorità, fuori del tempo, che cercavano la pace nel rimpianto di quella vita a lui tanto cara.

Quanto Victor de Sabata si sentisse legato a Trieste, si può intuire da come ha firmato queste due sue ultime composizioni: «Victor da Trieste».

 

 

l. A Trieste, prima del concerto del 1952, de Sabata aveva diretto in un’unica occasione, il 22 novembre 1935.

2. Rinvio all’illuminante e profonda cronaca di Renato Mariani, Dirige Victor de Sabata, «Giornale di Trieste», 29 maggio 1952: «Una soluzione interpretativa dell’arte direttoriale di Victor de Sabata che continui ad indugiare intorno ad un fatto di ‘personalità’ (di supremazia di ‘personalità’) appare troppo sbrigativa e frettolosa. Per lo meno se tale fatto venga inteso unilateralmente, univocamente ossia come presenza di fenomeni essenzialmente emotivi ai quali si affidano il prestigio e il livello della singola interpretazione. Sta di fatto che in de Sabata la personalità raggiunge altezze, altrimenti inedite, ammirate e predilette proprio per il fatto che esse possono affiorare in pieno splendore ed in accesa tensione oltre la fase preliminare – ma necessaria – che pur egregiamente serve quale piattaforma attendibile ed accreditata. In altre parole intendiamo asserire che la fase più appariscente dell’interpretazione di de Sabata – quella che ad alcuni ascoltatori superficiali può sembrare come l’unica e la fondamentale – risulta coerentemente tale, stupendamente tale proprio perché essa sorge da una ferratissima preparazione e dalla definitiva combustione ed assoluta padronanza dei molteplici, difficili elementi complementari e concomitanti ai quali fa capo una concentrazione collaudata ed effettiva. Dopo siffatta precisazione, dopo una messa a punto in tal senso – certo non superflua al fine di sfatare qualche credulità a buon prezzo – possiamo documentatamente fermarci, anche noi, dinanzi alle formidabili qualità interpretative di chi di una partitura sa comunicare il supremo intimo orgasmo con prontezza, capillarità, stimolo patetico davvero senza confronti. Qui incomincia il capitolo singolarissimo della personalità del maestro. Non so se qualcuno gli abbia mai domandato (e la domanda sarebbe stata meno intelligente di quanto possa credersi) s’egli miri, nelle sue interpretazioni, ad un fatto di perfezione esecutiva. Ma spero, in ogni modo, che la risposta sia stata negativa. Ci sarebbe da chiedersi, intanto (e il discorso si porterebbe lontano e non si esaurirebbe certo in queste righe), cosa sia perfezione e come si possa documentare la realizzazione della stesura perfetta in sede interpretativa. Diciamo poi anche, senza vergogna, che per noi la perfezione si accompagna troppo spesso alla noia, nella vita e dunque anche nell’arte. E toccheremo, conseguentemente, il risultato più incredibilmente opposto a quello che proviene dalle superbe, stupende interpretazioni di de Sabata. Già una volta ebbi a scrivere che il traguardo interpretativo del maestro resta nel dominio assoluto e perentorio dell’emozione, che la sua concertazione punta tutto – e con quali raggiungimenti – sulla risultanza patetica. Da questo avvio, da questo anelito sentimentale che determina ogni minimo elemento sorge, a cose fatte, uno dei più significativi raggiungimenti: la mutevole estrinsecazione del fatto interpretativo stesso. Lo sappiamo: alcuni invidiosi (limitiamoci a classificarli così, benevolmente) rimproverano al maestro proprio quanto costituisce il più mirabile e segreto e personale conseguimento suo: l’impossibilità (che è poi un bisogno irreprimibile, un desiderio logico e generoso) d’interpretare immutatamente, attraverso inalterate situazioni interpretative, un determinato testo. Sarebbe ben facile obiettare che ciascun essere vivente è soggetto a questa variazione, a questa oscillazione emotiva. Ma a noi preme, invece, additare in de Sabata questa supremazia dello stato d’animo (che si rinnova e si trasforma senza tregua) come l’indice sommo ai fini della sua grandezza d’interprete, come il dono vero ed irripetibile della possente comunicativa del maestro, della sua foga imperiosa, che soggioga e sgomita qualsiasi asperità del cammino direttoriale. Non è diminutivo asserire che quando de Sabata sale sul podio perde il controllo di se stesso; lo perde – per fortuna di noi, ascoltatori ammirati – perché la preparazione tecnica, mnemonica (cioè l’assimilazione esaurientissima della partitura) , concertativa gli appartiene indissolubilmente, come gli appartengono le mani, la fronte, gli occhi e via dicendo. E allora può – e deve – prendersi il lusso (e chi potrebbe imitarlo?) di accantonare tutto, di dimenticare quel tutto che salta fuori , senza fallo e a tempo debito, ogni qual volta occorra; e allora entra in giuoco il fervore puramente interpretativo – ossia di rendimento patetico e di comunicativa affettiva – che via via, durante l’esecuzione, viene stabilito e graduato dallo stato d’animo del maestro cioè dalla particolarissima situazione patetica di lui medesimo. Ecco perché alcune accezioni interpretative, pur indubbiamente personalissime, non potrebbero mai apparire – che so io – esagerazioni o superfetazioni o deformazioni ; ecco perché lo stato d’animo che proporziona una determinata esecuzione è quello – e quello solo – valido al momento, ma che valido potrebbe non apparire più appena pochi minuti dopo. Esemplificare in proposito non è agevole, data l’ampiezza del repertorio entro cui spazia, travolgente e infuocata, la personalità di de Sabata. Ma ci piace accennare a qualche caso, che, proprio a riprova delle riflessioni sopra allineate, intendiamo trarre delle documentazioni esecutive più correnti e comuni.
Prendete una pagina famosa: il ‘racconto’ di Mimì nella “Bohéme”. All’ ‘andante molto sostenuto’ alle parole “Ma quando vien lo sgelo” de Sabata alimenta l’avvio ritmico con una speditezza specificamente impaziente e ribelle che conferisce al rigoglio melodico espressione più efficace ed adeguata. Poi, il ‘tutta forza’ delle misure finali della medesima opera non si rivela, come di consueto, effetto esteriore di sonorità; è un ribadito, risentito atto di accusa – suggerito dal giro della melodia – che de Sabata potenzia e rende solenne attraverso la centellinata saturazione emotiva della polpa cantabile. Passate all’ultimo atto di “Andrea Chénier”. Generalmente l”andantino’ alle parole di Maddalena “Benedico, il destino” viene riferito all”espressione’ prescritta in partitura. De Sabata invece, sorreggendo e puntualizzando proprio i valori strumentali, pone una fierezza accorata ed un’indiretta rimembranza dogliosa alla linea vocale. E, in “Fedora”, quell’acceleramento, quasi precipitoso, delle misure conclusive della canzone di De-Siriex, a12° atto, valorizza, per una sfrenata ed allusiva perentorietà di getto melodico, la bella frase che affiora in orchestra. Chi abbia ascoltato “Pelléas et Mélisande” di Debussy nella magica, veramente impareggiabile, interpretazione di de Sabata (un caso dove sarebbe da ricordare tutto, nota per nota) non dimenticherà mai la dilatazione sonora che il maestro richiede sulle misure iniziali per rendere ancor più immediatamente suadente e sognante il misterioso avvio del dramma. E raramente, in “Aida” di Verdi, due passi potrebbero trovare, se non nell’esecuzione di de Sabata, quel vigore patetico che altri poi ha tentato d’imitare: nel 3° atto le reticenti parole della protagonista al padre “Della mia patria degna sarò” assumono una impressionante gamma sentimentale che passa del sbigottimento al rimorso, dall’accasciamento al pianto in virtù dell’affiancamento strumentale che de Sabata impone infallibile nei valori ritmici e nella patina, prima lievitata, poi pungente fino allo spasimo, delle note ribattute; al 4° atto l’invocazione di Amneris ai sacerdoti, sentita in orchestra con sordo furore, sembra già scontate le lagrime della donna per ergersi quale espressione d’odio nei colmi accordi che esauriscono la scena. Anche “La forza del destino” offre un esempio originale: la predica di Melitone – al 3o atto – assume nell’interpretazione di de Sabata quel senso di monito, di profezia suggerito da una corretta considerazione psicologica del personaggio in luogo dell’ abusato e stracco umorismo del tutto gratuito. Alle parole “li mondo è fatto una casa di pianto” il direttore calca la mano sulla proporzione strumentale e, attraverso un accentuato rilievo dell’aggressivo assenso che corrisponde in orchestra alle invettive del frate, svela il veridico volto di una figura generalmente fraintesa ed equivocata. Ma quanti altri testi ci sarebbero da menzionare, per dare atto di siffatta grandezza interpretativa che non ha norme e limiti, che rifugge da qualsiasi preventiva regolamentazione di espressioni, che odia e detesta – e quindi evita, per la gioia degli amatori – i luoghi  comuni dell’inveterato, del collezionato, del previsto, indugiato, con sfrontata genialità, con estro folgorante, entro zone rischiose e ad altri direttori decisamente interdette! “Tristano e Isotta”, “Requiem” di Verdi e – passando al settore sinfonico – Beethoven, Brahms, Strauss, Ravel: opere ed autori che de Sabata sa rendere immutabilmente ‘nuovi’ non già per un’umiliazione od un’ alterazione del fondamentale spirito costruttivo, ma per l’urgenza patetica che la sua possente personalità imprime imperiosamente ad ogni pagina. L’ultimo tempo della beethoveniana “Settima Sinfonia” può essere additato, probabilmente, come uno dei casi più straordinari in tal senso: per l’inflessibile respiro ritmico entro il quale de Sabata articola il tessuto strumentale, giungendo a vertiginose congiunture ritmiche, a stupefacenti risultanze sinfoniche, ad una frenetica e sfrenata ossessione di moto cantabile parossisticamente gioioso e invasato.
CosÌ la temperatura patetica affiora dall’intima vibrazione sentimentale del maestro; così, attraverso un gesto irresistibile ed una comunicativa prorompente e ardentissima, il mistero e il sapere del concertatore si estrinsecano in un assunto direttoriale categorico e sempre sensazionalmente rinnovantesi».

3.  In un suo articolo – Quattro chiacchiere con Victor de Sabata, «Le ultime notizie », 22 gennaio 1957 – di lui cosÌ scriveva Salvator Gotta: «Non credo possa esistere musicista più completo e nello stesso tempo più semplice di lui. La sua ipersensibilità traluce dai suoi occhi vivissimi, dal sorriso quasi continuo che anima il pallore del suo volto, dal calore delle sue parole precise come note musicali, dalla sua gentilezza, della sua coltura, e soprattutto da quella discrezione nei giudizi che è quasi come un pudore spirituale, caratteristico nelle menti veramente superiori, destinate a dominare quasi senza volerlo, a dirigere musiche e cuori per influsso di una misteriosa volontà suprema [ .. . ]. Libri sparsi e ammucchiati, un po’ dappertutto. – Trovi anche tempo per leggere? – Di notte, quando non mi è possibile di giorno. – Quali libri preferisci? Romanzi? – Anche romanzi: libri di fantasia, insomma, e di poesia … ».

4. A proposito del ballo Mille e una notte Guido M. Gatti osservava: «Il nuovo balletto di Vietor de Sabata ‘Mille e una notte’, rappresentato la sera del 20 Gennaio (1931) – direttore Calusio – con la Cavalleria rusticana; musica di ottima fattura , ‘musica da mille e una notte’, uno scoppio di razzi strumentali, un bagliore di armonie incandescenti, prodotte dal cozzo delle più ardite combinazioni contrappuntistiche: una ridda di ritmi, ora martellati con insistenza implacabile, ora blandi, ora rapidi e concitati e ora lenti e voluttuosi. Si risvegliano in fondo all’ animo di chi ascolta sensazioni assopite. L’incanto in cui ci tiene per un momento l’arte sensuale del Compositore è sottile. De Sabata è musicista valentissimo, come tutti sanno e di alta perizia tecnica».