TESTIMONIANZE

L’arte di Victor de Sabatadi Giorgio VigoloTratto da: Teodoro Celli, “L’arte di Victor de Sabata”, ERI/Edizioni RAI, Torino, 1978

L’arte di Victor de Sabata di Teodoro Celli

La mia esperienza desabatiana — diciamo così – coincide con l’inizio della mia funzione di critico musicale che cominciò improvvisamente nel ’45 con il giornale « L’Epoca », quando Giacomo De Benedetti, Moravia e Piovene ebbero l’idea brillante di ricordarsi che il poeta Vigolo era anche molto musicale; lo avevano sentito suonare, cantare Schumann e allora pensarono che sarebbe stata una trovata giornalistica farmi fare le critiche.

Io accettai dopo molte perplessità. Mi ricordo che Piovene fece l’invito; ero andato a sentire una sua conferenza e all’uscita mi disse: « Si fa il tuo nome come critico musicale dell'”Epoca”. Siccome erano tempi duri, pare che ci fosse una lunga coda di critici che aspiravano a questo posto; ma loro preferirono affidarlo a me Io dissi a Piovene « Mi dai una notizia che mi mette in grande preoccupazione; ma la fame caccia il lupo dalla tana; e quindi credo che dovrò accettare ».

Infatti accettai. Loro credevano di avere avuto soltanto una tro­vata brillante; invece avevano anche avuto una trovata felice, perché effettivamente queste mie critiche sull’« Epoca» ottennero subito un relativo successo, direi quasi maggiore di quello che io non avessi avuto mai prima con la mia attività solamente letteraria.

Ora, dicevo, nel periodo in cui cominciai a fare il critico musicale, i concerti di Santa Cecilia si facevano al teatro Adriano e in questi concerti piombò come un bolide… o meglio, come un aerolito molto splendente, de Sabata, che era venuto a Roma e che si trovava in un periodo molto felice, anche sentimentalmente. De Sabata fece all’Adriano tutte le sinfonie dí Beethoven, oltre ad altre cose; e le sue esecuzioni erano tra le più perfette ed equilibrate che credo egli abbia mai diretto nella sua vita.

Un entusiastico ammiratore delle sue esecuzioni era Savinio e mi ricordo che dopo una esecuzione dell’Ottava di de Sabata ebbe una espressione particolarmente felice per dire come era rimasto incantato da questa esecuzione. Ma io ricordo veramente come una delle più alte emozioni musicali della mia vita, la esecuzione della Messa solenne di Beethoven, che fu fatta nel dicembre del ’45 sempre al Teatro Adriano e che riuscì particolarmente bene, specie nella prova gene­rale, come spesso succede?… A volte succede invece che dopo quattro, cinque prove ancora non si è arrivati all’anteprima. Invece in questo caso la prova generale venne meglio, perché nella esecuzione avevano messo degli altoparlanti che guastarono l’acustica della sala.

Altro avvenimento che ricordo è l’Otello che de Sabata diresse sempre all’Adriano in quella specie di stagione armistiziale che si faceva allora, con Gabriella Gatti, Bechi, Merli e fu veramente un Otello eccezionale, di grandissima classe. De Sabata non era mai contento dell’orchestra: non gli pareva che suonassero abbastanza bene o abbastanza piano.

Ricordo che nell’intervallo fra il primo e il secondo atto, mentre gran parte dell’orchestra era uscita, lui trattenne gli archi, per pro­vare ancora il duetto finale del primo atto, perché gli sembrava che non rendessero abbastanza bene.

Ci sono stati poi altri concerti, nel ’46 all’Adriano, fra cui ricordo una splendida Nona.    Verso la fine del ’46 avvenne lo sfratto dell’Accademia di Santa Cecilia dall’Adriano e ci si dovette adattare all’Ar­gentina, e ad un’acustica certo non troppo felice.

Il 5 dicembre 1946 de Sabata inaugurava i concerti all’Argentina con la Prima Sinfonia di Brahms. L’8 dicembre de Sabata dirige di nuovo all’Argentina, con l’Orchestra della Scala, la Sinfonia di Franck, oltre alla Sera d’Estate di Kodaly e al Bolero di Ravel. Ricordo anche all’Argentina una bellissima esecuzione del Requiem di Brahms e un’esecuzione della Sesta e della Nona. Dopo di questi non ho altri diretti ricordi di de Sabata.

De Sabata aveva una carica di mimica molto accesa, che io ritengo in parte collegata a quella che è stata forse la sua maggiore e  famosa esperienza, la sua interpretazione del «Tristano». Ora io ho avuto l’impressione che al centro della interpretazione di de Sabata ci fosse sempre una specie di nostalgia del «Tristano» che egli voleva trovare, come carica emotiva e come mimica, anche per l’interpretazione di altre partiture.

Queste caratteristiche, però, nel periodo in cui io l’ho sentito dirigere a Roma mi pareva che fossero molto attenuate e compensate da una specie di equilibrio e di calma, che una volta chiamai addirit­tura “apollinea”, per cui il dinamismo di de Sabata si era molto equilibrato. Tanto che io scrissi una volta che «sembrava che de Sabata avesse fatto fare alle sinfonie di Beethoven una specie di goethiano viaggio in Italia » e che « le avvolgesse in una tersa e limpida luce mediterranea che permetteva di vedere quasi prismaticamente i valori timbrici, nella massima limpidezza ». Ricordo che in una splendida esecuzione della Pastorale di Bee­thoven all’Adriano, ma poi anche all’Argentina, si poteva pensare che de Sabata non resistesse sempre alla tentazione dí far brillare il suo paesaggio a un raggio grazioso che non era sempre quello del sole, ma di un riflettore scenico. Allora, la sua interpretazione dava un poco il sospetto della regia. Perfino il guizzo di folgore  dell’ottavino nel temporale della Pastorale sembrava compiacersi del suo sibilo, che de Sabata faceva particolarmente emergere: sembrava che si facesse notare come un primo ballerino in una piroetta!

D’altra parte, una staordinaria intelligenza, una sensibilità e un’attenzione sempre vigili ponevano — si può dire — un problema espressivo per ogni battuta e lo risolvevano in una maniera che riusciva ad estrarre dalla partitura la maggiore quantità di energia rit­mica e musicale allo stato nascente, creativo.

De Sabata aveva anche una cura particolare per i «pianissimi», che non erano mai abbastanza pianissimi, questo specialmente per i contrabbassi e i violoncelli. Io mi ricordo appunto in quella prova dell’Otello, di cui parlavo prima, — al momento dei violoncelli soli nel duetto finale del primo atto — di aver sentito dire da uno degli esecutori che de Sabata non era mai contento, per lui non era ma abbastanza « piano ». Allora, a un certo punto per ottenere questo pianissimo che lui voleva, loro passavano l’archetto sul violoncello senza suonare; e allora de  Sabata diceva « Adesso va bene! ».

Ai concerti di de Sabata il pubblico reagiva con un entusiasmo che presto si trasformava in delirio. L’effetto di de Sabata sul pub­blico era innegabile, fortissimo, maggiore forse anche di quello di direttori più grandi di lui! Inebriava veramente, era un’ubriacatura in cui c’era forse qualche cosa dí una leggera «droga desabatiana»; comunque il pubblico impazziva per lui.

 

In: Teodoro Celli,  “L’arte di Victor de Sabata”, ERI/Edizioni RAI, Torino, 1978