TESTIMONIANZE

L’arte di Victor de Sabatadi Giulio ConfalonieriTratto da: Teodoro Celli, “L’arte di Victor de Sabata”, ERI/Edizioni RAI, Torino, 1978

Giulio Confalonieri (1896-1972) ebbe occasione di scrivere spesso su de Sabata, con acutezza di giudizio e fervore d’ammirazione. Questo è l’articolo che egli pubblicò «in morte» del Maestro sul quotidiano milanese «Il Giorno» dell’11 dicembre 1967.

“Ieri notte, a Santa Margherita Ligure, è improvvisamente morto de Sabata. È una notizia terribile, una catastrofe per la musica italiana. Non importa che de Sabata si fosse «ritirato» da oltre dieci anni, non importa che non dirigesse più da lungo tempo. Il pensiero ch’egli era là, nel suo esilio, nel paese che aveva tanto amato fin da ragazzo, mentre lasciava ancor vivo il lume di una speranza, costituiva per tutti un conforto. Si sarebbe potuto andare da de Sabata in qualunque momento a domandare, a farsi illuminare. Si sarebbe potuto «vederlo».

Cosi ci spiegavano, anni addietro, alcuni professori della Scala: «Lei che è un suo amico, Io preghi di tornare. Gli dica che a noi basta di “vederlo” qui, in orchestra. Non c’è bisogno che “diriga” nel senso stretto della parola. Basta che sieda in mezzo a noi e che noi riusciamo a “vederlo”. Chissà come si suonerebbe».

Noi, l’ultima volta, lo abbiamo « veduto » l’estate scorsa, in una vecchia villa a pochi passi da Bergamo. Salendo per l’erta udimmo le note di Scarbo di Ravel. Sulle prime ci venne l’idea che il maestro avesse lì per ospite un qualche grande pianista. Ci eravamo dimenticati, un istante, che de Sabata, oltre a tutto il resto, era anche un pianista di capacità incre­dibile, come pure violinista e violoncellista. Interrotta l’esecuzione di Scarbo, de Sabata la volle poi riprendere e volle esaminate con noi se quel pezzo, fra i più difficili della letteratura pianistica, superasse in ardi­tezza l’Islamey di Balakirev. Per far bene il confronto, de Sabata si mise a suonare Islamey con la stessa agevolezza di mano, con la stessa disin­voltura. Poi, quasi a compenso delle superficialità di Balakirev, si spro­fondò nelle Mazurke e nelle Ballate di Chopin; poi ripeté dieci volte una certa soluzione armonica nei «Cieli azzurri» che lui trovava incantevole. Non lo vedemmo più; non lo avremmo più riveduto. Ma adesso ch’è morto, come dire della sua immensa capacità musicale? Del fluido miste­rioso ch’egli sapeva comunicare all’orchestra? Di quella sofferenza commista a una gioia beethoveniana, di quella vibrazione, qualche volta addirittura spasmodica, di quella dedizione totale, entusiastica e disperata? Chi potrà mai dimenticare il suo Tristano precipizio nell’estasi e nella distruzione? La sua Tasca, il suo Sansone, il suo Pelléas, il suo Requiem di Verdi? Se ci fu una Scala di Toscanini, ci fu pure una Scala di de Sabata, quella dal ’30 al ’50. Si andava allora per sapere dove lo stregone ci avrebbe con­dotti. Si andava, ogni volta, sicuri di una rivelazione e di un insegna­mento. Benedetti i dischi che, di un’arte cosi straordinaria, poco in verità ma qualcosa almeno custodiscono. Ecco: nell’atto di porgere a de Sabata l’estremo saluto noi sentiamo l’inadeguatezza di qualsiasi parola, l’impos­sibilità di far comprendere, a chi non l’abbia ascoltato, che cosa fosse il carattere assolutamente unico delle sue esecuzioni; la fiamma ch’egli sa­peva comunicare.

Victor de Sabata era nato a Trieste il 10 aprile del 1892. Allievo di Saladino e di Orefice nel Conservatorio di Milano, aveva subito stupito condiscepoli ed insegnanti per. l’eccezionalità delle sue doti musicali: orecchio portentoso e portentosa prontezza nell’apprendere. La sua «Suite», composta come saggio di esame, diede a vedere la presenza di un musi­cista ormai compiuto in ogni suo aspetto. Nel 1918 de Sabata principiò la carriera direttoriale al Teatro di Montecarlo, ove fra l’altro, presentò per la prima volta L’Enfant et les sortilèges di Ravel, prescelto dall’autore stesso a interpretarla. Da Montecarlo passò nei più importanti teatri e sale da concerto del mondo. Fu a Cincinnati, negli Stati Uniti, direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica; fu a Bayreuth, unico italiano dopo Toscanini; fu a Vienna, a Berlino, a Londra, al Maggio Musicale Fiorentino, all’Opera di Roma. Alla Scala diresse ininterrottamente per circa vent’anni, fondando, si può dire, un’era desabatiana. Ultima sua apparizione fu quella in occasione dei funerali di Toscanini, allorquando, in omaggio al suo grande con­fratello, guidò l’orchestra scaligera attraverso l’epicedio della Eroica di Beethoven. Lascia, di sua composizione, l’opera Il Macigno, il balletto Mille e una notte, i poemi sinfonici Juventus, La notte di Platon, Gethse­mani e alcune musiche da camera.

 

In: Teodoro Celli,  “L’arte di Victor de Sabata”, ERI/Edizioni RAI, Torino, 1978